L’epidemia prima dell’Epidemia

L’epidemia prima dell’Epidemia

Il mare si era alzato e pesava ora grigio sopra le teste. Quasi a significare l’impossibilità a volare. Inerte schiacciava la terra e rendeva del suo stesso colore i pensieri di lui. Lui se ne stava avvinghiato a lei. E così mandavano affanculo il mondo, mentre fuori pioveva. Ma si sa, il mondo non è più solo fuori. Non bastano più quattro pareti per separarcene. L’inferno degli altri ha imparato a non bussare più alla porta; riesce ad infilarsi nella buca delle lettere.

Almeno quando si tenevano stretti per possedersi qualcosa sembrava tacere. Era un ottimo sesso. C’era amore: sì. C’era possesso: forse. Provavano a specchiarsi l’uno nell’altra e molte volte ci riuscivano. Lui rivedeva in lei i suoi pregi. Lei rivedeva in lui i suoi difetti. Ma la cosa che contava davvero era una. Era unico.

Senza aver troppo scelto prima avevano deciso di passare le giornate di isolamento dall’epidemia in casa di lui. Era un ottimo alibi: anche senza il virus probabilmente avrebbero fatto la stessa cosa. Per una volta era il mondo a doversi adeguare ai loro ritmi. Questo però non bastava.

Nella testa di lui tutto ancora premeva. Si sentiva estremamente fortunato d’avere quel fiore di ragazza tra le braccia e di tornare spesso tra le sue cosce, ma il chiodo che la sua vita dovesse avere una direzione precisa continuava ad essergli conficcato non lobo occipitale. In quelle quattro pareti non riusciva a tenere fuori l’intero mondo. Chi però non trovava lì dentro era lui stesso. Grazie a Dio trovava lei, la cui saggezza aveva le solide basi nell’oblio del buon vino e della leggerezza di vivere. Lei aveva studiato. Non s’intendono i tre anni di un’università a Londra. Gli studi veri vertevano sul piacere della vita. Lui aveva fatto solo qualche corso serale e ora cercava di apprendere da lei. Andava bene, ma non ci riusciva del tutto.

In realtà per entrambi era difficile. La sfida di vivere una sospensione. Sentirsi in un momento di transizione e avere il pauroso sentore che durerà tutta la vita. Cercherò di spiegare con una metafora questa sgradevole sensazione: Vivere nella sala d’aspetto del dottore. L’attesa è sconfinata, ma non c’è nessuno. Soprattutto non sai né se arriverai dal dottore né se effettivamente ci sia un dottore.

Cosa sei in quel momento? Non sei un paziente, perché nessuno ti visita. Non sei un rappresentante di case farmaceutiche, ambasciatore di chi vorrà salvare l’umanità un attimo dopo d’averla distrutta. Non sei un cazzo di nessuno. Però leggi Panorama. Forse questa farsesca immagine potrà aiutare, a chi vede da una distanza anagrafica e sociale, a comprendere perché una coppia di trentenni si alza il lunedì mattina alle undici e mezza. Del mattino, non della sera per andare a fare pipì.

Ora lui non riusciva pienamente a fare la pace con il fatto d’alzarsi all’ora in cui suo padre sta per tornare dal turno del mattino. Ma questa volta era giustificato. Fuori imperversava l’epidemia. A evidenziare la drammaticità della situazione c’erano quelle nuvole. Nuvole basse, pesavano sempre sul suo cervello. Si avvinghia a lei e chiude gli occhi. In due si sostiene meglio.

L’isolamento serve a poco. Qualcosa da fuori arriva comunque. Il virus si annida. E si tossisce, o poco di più per chi ha la nostra età. Tutto passa. Restano i corpi e le menti mangiati dai pensieri. Tormenti che ondulano dentro di loro. Movimenti piccoli che si esprimono in tremolii, delle membra, del busto, della testa. Il corpo oscilla tentando una dinamica che non porta da nessuna parte. Quasi un suggerimento che la mente non ha tempo di ascoltare. È infatti intenta a sentire tutti i preziosissimi consigli che il mondo le vomita addosso. Tutti trucchi per non stare male.

Si resta. Freneticamente immobili. Sperando che l’epidemia cambi.