Come va?

Come va?

Tutto bene. Bene. E via, seppelliamo tutto così. Con una parola. Il tappo del vaso di Pandora. Come se ci fosse qualcuno ancora disposto a crederci. Certo, c’è di peggio. C’è sempre di peggio. Lo riesci sempre a trovare un povero disgraziato da mettere in paragone a te. Ti fa sentire meglio? Neanche per sogno. Perché per uno che sta peggio, altri dieci ti sbattono in faccia il loro “meglio”. Ma caro amico, lo sai che c’è la guerra, la carestia, la pestilenza… L’hai visto! Se vedere qualcosa significa non osservarla direttamente con i propri occhi. Si vede col filtro televisivo. Non troppa, né troppo poca, la tragedia umana è somministrata a piccole dosi. Anche questo ti spinge a dire “BENE”.

A meno che tu, in una giornata parecchio ispirata non ti spinga a dire un “non c’è male”. O avere il brivido del “potrebbe andare peggio”, mostrando magari la tua cartella clinica al fortunato interlocutore. Non capisco perché una delle meno gettonate, ma delle più efficaci, è “fatti i cazzi tuoi”. Rapida, essenziale e ti tira fuori da situazioni sconvenienti. Purtroppo però è rara quanto trovare Miu Tu con l’applicazione dei Pokemon. Nella stra-grande maggioranza dei casi si finisce sempre lì: quattro lettere, che racchiudono tutto. M-A-L-E, al contrario.

Ma non basta. Credo ci sia qualcos’altro nella brevità della risposta che sfugge.

“Come stai?”

E giù tutte le slide dei tormenti che t’inseguono; Erinni che t’infilano le loro dita nodose e artritiche nel culo mentre cerchi di camminare a passo svelto per depistarle. L’unghia gratta come un uncino maledetto.

“Ho bisogno di un dio ellenico che sposi la mia causa nella guerra di Troia della mia lieve esistenza, che mi aiuti a vincere le battaglie ma soprattutto che mi dica perché cazzo sto combattendo!”

Ma non è la risposta che do. Preferisco prendere una bella lastra di marmo e mettere tutto a tacere. Altrimenti è troppo rischioso… Scherziamo. È peggio di un virus. Di solito prima di dare la fatidica risposta si opta per un diplomatico “eeeh…”. Ci si pensa su. Slide. Fisting mitologico. Morte per due palle dorate.

“Eeeh… Dai…”

Rullo di tamburi.

“… direi che…”

Svelto o si crepa il sorriso.

“…va bene!”

OH.

“e tu?”

“Alla grande”

Mavvaffanculo!

Ogni tanto mi è capitato. Fingere per fingere, facciamolo in grande. Anzi ALLA GRANDE. In fondo forse è l’unico modo perché le cose siano vagamente davvero così… positive.

Bisogna però aver indossato bene la corazza. Si può rischiare di rimanere disarcionati e col culo per terra. Una volta ero a zonzo, spavaldo sul mio destriero incurante di quello che mi sarebbe capitato di lì a poco. Vivendo in un paese i cui abitanti credono di vivere in una grande città, è facile incontrare facce conosciute e non salutarle. C’è sempre l’alibi: “Chissà s’era davvero lui? Possibile sia proprio lui… in questa GRANDE città?” Meglio non salutare. C’è il rischio sia qualche sconosciuto. Disgraziatamente questa protezione dagli agenti esterni non sempre è efficace. Quindi capita di salutarsi e dirsi “come va?”.

Ecco.

Sguardo a terra. Raduna le forze e rispondi da copione.

Ma questa volta no. Questa volta mi sento bene. Davvero. L’aria è frizzantina. Cielo terso. Ma facciamola una bella passeggiata saltellante tra le cacche di cane per il centro! Sono il sole dei tombini. Mi gratto la barba e lo dico:

“Alla grande!”

“Perché?”

Che cazzo vuol dire? Che domanda è? San Tommaso stava fiutando l’odore della carne in putrefazione. Anche se era coperta dalle vesti. Dal cappotto per giunta. Ed è andato a fondo con il suo dito senza aver lavato le mani.

Domande. Domande su domande, per analizzare quanto la mia vita in realtà sia borghese, dall’alto del pulpito di chi ha visto la miseria del mondo e te lo deve mostrare. Capelli lunghi. Barba rada non tagliata. Una spolverata di centro sociale. E il senso di colpa è pronto, da servire con un contorno di “fatti i cazzi tuoi” andato di traverso.  

Il sermone si alimenta della colpa che ti ha seguito come un cane fedele. “Sì! Hai ragione! Devo andare in Nigeria e fermare il traffico di organi di bambini albini! Scusatemiiii…” e corro via piangendo e nascondendo la faccia tra le mani. Qualcosa del genere doveva essere la reazione che avrebbe voluto. Interessante è che non ricordo assolutamente nulla di quella conversazione. Ricordo solo l’angolo destro della bocca di San CentroSociale che si curvava a punto interrogativo. 

“tu le conosci le vite degli emigrati?” – “tu sai che viaggi han fatto?” – “pensi che la tua vita sia felice?”

ZEUS! Padre degli uomini e degli dèi, fulminalo! Che cosa vuole da me?! Olimpio, sacrificherò oggi per te un vitello sano al posto di guardare le mail in arrivo, ma ti prego rispediscilo alla frontiera francese a suonare una chitarra scordata e fare il bagno in mare nudo mentre decine di somali lo guardano interdetti.

No. È ancora qui. E io dondolo sui miei piedi fingendo che il mio “alla grande” sia ancora valido. Poi, dopo che gli ho dato in pasto tutta la mia energia se ne va, lui. Io invece rimango lì. Non con tutto il corpo. Solo con la testa. Perché tutti quei punti interrogativi sono rimasti attaccati come le spine di fico d’india.

Meglio, come la testa di una zecca. Due teste, la mia e la zecca. Ho dovuto chiamare la mia terapista.

Ora torno a casa. Sempre nel centro storico di quella vecchia città o nuovo paese. Palazzi antichi alti e stretti tengono la luce del tramonto solo per i piani alti. Gli odori delle gastronomie del sud del mondo si mescolano in basso e qualche volta tentano l’appetito. Ma non mi va. Guardo a terra. Vedo le ciabatte. Ciabatte di tutti i colori, ma i piedi sempre neri.  Come fanno ad andare in giro così per queste strade sporche? Meglio che attraversare il bagnasciuga a Ventimiglia. Insanguinarsi i piedi sugli scogli per raggiungere l’Europa promessa.

Mi chiamano, mi vogliono. Vogliono i miei soldi in cambio di pastiglie. L’Europa promessa. Gli darei delle scarpe piuttosto. Faccio cenno di no con la testa e vado avanti. Incrocio gli occhi sbarrati e le gambe secche dei visipallidi che la pastiglia l’han presa. Incedono con il passo sicuro come se andassero incontro alla Madonna. Lei almeno non fa domande. Non da nemmeno risposte.

Al portone giro di chiave. Salgo le scale. Vecchio srylanchese: “Salve”. Nessuna risposta. Salgo ancora. Quinto piano. Entro.

C’è ancora il sole. Ma sta tramontando. La casa per cui pago l’affitto è illuminata e dipinta di un arancione caldo ed accogliente.

Silenzio.

“Eeeh… dai… direi che va bene.”