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L’esperto mostrava un grafico che sembrava avere una ripresa dopo il tonfo recente. Spiegava che con buana probabilità, ma nessuna certezza, le cose sarebbero andate migliorando. Subito dopo da una mucca pezzata veniva munto del latte al cioccolato e dei bambini biondi e mulatti si affrettavano a portarlo alle loro bocche sorridenti per berlo ad occhi chiusi, quando decise di spegnere il televisore.

Si alzò dal letto. Lei ancora dormiva serena. Come facesse in quel frastuono non riusciva a capirlo. I gabbiani aprivano il becco come manifestanti rauchi dall’altra parte del tetto. Nessuno poteva sentire la loro protesta. Dalle finestre aperte il tappeto sonoro dei clacson era spezzato solo dalle grida di qualche disperato passante o da qualche brusca frenata e successive grida disperate.

L’odore che saliva dai piani sottostanti aumentava il frastuono di quel mondo civilmente selvaggio. Qualcosa stava friggendo nel suo stesso grasso da ore. Le spezie impiastricciavano il tutto. Forte della sua esotica e sconosciuta essenza, entrava insieme al ronzio dello smog dallo spiraglio della finestra aperta in bagno.

Chiuse la finestra, con la scusa del freddo. Era nudo. Ma era maggio. Ed erano le sei del pomeriggio. Sentiva comunque la freschezza delle piccole piastrelle sotto i piedi che, a contrasto con il calore delle lenzuola, gli pralinavano la pelle. Per sentire davvero qualcosa bisogna passare da un eccesso all’altro, pensò. Come alle terme.

Il pavimento del bagno non era solo un lontano ricordo delle cure termali. Era anche un raccoglitore dei capelli di lei e dei peli di lui. E quella fredda landa vibrava. Succedeva, ormai spesso. Vibrava dei decibel delle baciate pop dei piani di sotto. La musica chicana lo aveva sempre innervosito. Anche ora che ne arrivava solo il miagolio da sotto i piedi.

Contrariato anche se non sapeva di preciso per cosa, strappò due quadrati di carta igienica. Stava pensando a qualcosa relativa a quello che avrebbe dovuto fare nel suo presente: i pensieri gli risuonavano forti e urgenti in ordine casuale senza alcuna precedenza nel traffico della sua testa. Un fischio. Breve attimo di silenzio.

Aveva gettato il preservativo pieno nel water. Non nel cestino come sempre, ma nel water.

Tirò la catena, controllando che tutto sparisse come quando era bambino. Solo acqua e ceramica bianca. Per fortuna. Lei dormiva e non avrebbe mai scoperto questo piccolo segreto. Lo avrebbe custodito per i prossimi minuti in cui aveva intenzione di fumarsi una sigaretta alla finestra della cucina. La aprì. Quasi gli venne voglia di desistere il cerimoniale del fumo. Spettri di sostanze tumorali lo disturbavano. Ma i clacson coprirono la voce interna del suo senso di colpa. Come se nulla fosse si girò una sigaretta. Come se stesse facendo dell’altro.

Dalla finestra di fronte qualche opinionista dell’ultima ora urlava i suoi consigli ad un altro esperto della chiacchiera mondana su come poteva trascorrere il resto della sua esistenza, il quale risentiva fortemente suggerendo all’altro di optare per lo stesso. Forse chi stava guardando la trasmissione non comprese bene tutte le ingiurie ed ebbe il bisogno di alzare il volume. La sigaretta era quasi finita.

La fumò guardando distrattamente ciò che lo circondava. Al di là del fossato la città era in assedio perenne. Da est e da ovest erano arrivati a cingerla, parlando le lingue del mondo che ormai erano quelle della città stessa. Non avevano bisogno di entrare perché erano già dentro. Babele, reduce dell’esperienza, era ora cresciuta in un altro modo. Verso il basso.

Là si sarebbe dovuti andare. Da sotto la strada arrivavano a sprazzi le voci profonde di chi ride, chiama e si diverte in faccia alla propria povertà. Occhi e denti bianchi sorridono sullo sfondo della miseria negra. A modo suo li stimava. Lui non sarebbe stato capace di compiere un’odissea. O forse sì? Sentiva che il loro punto d’arrivo per lui doveva essere la partenza. Ma avrebbe saputo ridere delle disgrazie come loro?

Voci e musiche frammentate anche da dentro casa. Si era svegliata. Probabilmente stava scorrendo pezzi di vita altrui con un dito sullo schermo. Brevi frazioni animate, colorate a scelta. Sentì quell’inutile senso di disapprovazione. Non gli era mai piaciuta quella roba. O almeno, non gli piaceva che lei passasse il tempo a guardare delle nuvole senza forma.

In cielo romba un aereo. Mette un coperchio sonoro. Sembra quasi una base elettronica. Inconfondibile. Anche in montagna ad alta quota arriva. Testimonianza della vittoria. Della conquista. C’è una bandiera piantata in ogni angolo del globo. No, non in tutti. L’abisso è ancora intatto. Acusticamente, almeno. Laggiù, in profondo…

“Scendo.” Spense la sigaretta nel posacenere bianco appoggiato sul davanzale grigio di fuliggine.

“Dove vai?” Rispose lei dopo cinque minuti.

“Giù.”

“A fare…?”

“Compere.”

“Mi prendi le patatine?”

Non trovava il suo calzino destro. Cercò a lungo, accompagnato dal chiasso che un mondo di sconosciuti faceva attraverso il telefono di lei. Musiche trite ad alto volume skippavano veloci. Lo innervosiva. Diede la colpa al calzino.

“Mi prendi le patatine alla paprica?”

“Hai visto il mio calzino”

“Quale?”

“Quello verde.”

“No.”

“Perché, quello giallo sì?”

“No.”

Si mise un calzino di lei. Gli stava stretto, ma lei non se ne accorse. Proprio come per il preservativo. I cuoricini erano coperti dalla scarpa alta e dalla tuta blu scuro. Allacciò in maniera blanda. Giusto per non avere i lacci di mezzo. Indosso la giacca invernale, l’unica che aveva, e aprì il portone.

“Quando torni?”

“Subito.”

“Allora prendi le patat—”

Chiuse il portone. L’amava molto. Non sopportava che non si accorgesse quanto fosse in overdose di rumori. Quel mondo era carico di contenuti, evitabili, superflui, come una coca-cola di zuccheri. L’effetto era anche simile: sveglia i bambini e fa ruttare.

Scendendo le scale odori e musiche acquisirono le loro frequenze più acute. Poi per strada le voci erano diventate comprensibili nelle loro lingue sconosciute: un frastuono migliore.

Lungo la strada dai grossi mattoni dissestati, i pedoni neri sussurrano all’unico pedone bianco. Tra loro parlano forte. A lui sussurrano. Si espongono nella loro illegalità. Come sigarette accese nella notte sotto il tiro di qualche cecchino della trincea nemica. Audaci.

“Sconsiderati” pensò sentendosi chiamare da quelle sirene che gli offrivano il piacere chimico. “Esporsi così… potrei essere un poliziotto in borghese.” Poi si guardò i pantaloni della tuta sporchi e rivalutò la sua opinione. Avevano ragione loro.

Non si fermò: ancora non aveva raggiunto quello che voleva. Più giù ancora. La luce tramontava, il chiasso rimaneva. Se avesse stretto forte gli occhi avrebbe potuto essere qualsiasi ora della giornata. Ma non lo fece. Sapeva che l’attrazione che suscitava non era dovuta alla sua ipotetica xenofilia, ma all’altrettanto ipotetica somma di denaro da trattare in cambio dei loro servizi economici. Ancora no amico.

Della carne sfrigolava forte come una pioggia monsonica, facendo microscopici saltini sulla piastra incandescente. Jabil la ribalta totalmente con la paletta metallica mentre gridava al giovane di dare un carico di patatine con tutte le salse, compresa quella piccante, alla donna cinese davanti a me. Aspettava con l’acquolina. Lui, avvolto dai fumi oleosi e dalla musica marocchina, si sorprendeva sempre come gli alberi distanti al suolo, nella terra, sotto, sotto, le loro radici si potessero toccare.

Xiè xiè! Era il suo turno.    

“Il solito?”

“Grazie Jabil.”

Aspettò che l’asiatica fosse uscita e con lei tutta la clientela.

“Ieri sono passati due volte a fare controlli… Dobbiamo stare attenti. In strada c’è troppo shopping.”

Poi, pulendosi le mani caffelatte in uno straccio sporco: “Quanto?”

“Non ho molto tempo. Facciamo 10 minuti.”

“Accomodati pure.”

Caricò un pollo di plastica al numero 12 sulla ruota numerata che cominciò a ticchettare. Uscì da dietro il banco con tutti i piatti già composti, non troppo invitanti, accesi nelle cromatiche di spezie, poi facendo tintinnare una tendina di plastica rosa trasparente aprì un passaggio verso l’interno del locale dicendo distrattamente:

“Prego fratello mio.”

Abbassando un poco la testa s’infilò in quegli spazi stretti come se fosse un ispettore dell’igiene corrotto che consuma la sua routine. Gli vennero in mente gli insetti che vivono coinquilini delle nostre case. Piccoli mostri che rumoreggiano indisturbati nella notte senza pagare l’affitto. Preferì non pensarci. Non voleva rovinarsi il momento.

Tra i piccoli tavoli di metallo e i cartoni unti per terra percorreva la solita strada. Provò a salutare il nuovo cuoco, ma era troppo intento a sbattere le pentole sul piano di cottura: Non l’aveva visto passare. Erano in pochi a passare per di lì. Pochissimi. Sarà per questo che il nuovo chef si sentì libero di scoreggiare, mentre lui si lasciava quel mondo alle spalle. Fece scorrere la piccola porta incastonata in quegli stretti muri di pietra, che un tempo dovevano essere la parte alta di un’antica cisterna. Più che una porta era un pannello di legno con un buco per maniglia. Scese le scale ripide e strette. I mestoli erano già più lontani, attutiti.

L’odore d’umidità e muffa lo accoglieva ad ogni gradino di più. Gli piaceva. Da bambino andava spesso nella cantina dei nonni; ritrovava tutto quell’universo dimenticato, archiviato, che lui non aveva mai visto. Mai vissuto. Rimaneva solo in quella cantina stretta e cercava cosa potesse eccitare più il suo sguardo: una vecchia scatola di metallo. Un fumetto ingiallito. Un telefono in bachelite. Ma raramente si azzardava a toccare. Con la stessa eccitazione di un archeologo godeva di quel tempo semplicemente stando. Coccolato solo dal suono dell’acqua che scrosciava dal troppopieno del palazzo.

Jabil o qualcun altro lasciava sempre il rubinetto di bronzo male avvitato. Un filo d’acqua rimbalzava sulla pietra del piccolo lavabo. Sapeva che in questa vita non esiste il vuoto totale, ma cercarlo gli dava speranza. Stretto in quel piccolo spazio ritagliato nelle viscere del palazzo storico, illuminato appena da una polverosa 25 Watt, si sedette sul solito ed unico sgabello. L’interruttore a muro: senza placca. Lo spegne. Click!

Finalmente.

Silenzio